Nu poch'i scola - Tarsia dialetto

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Nu poch'i scola.


Articolo.
L'articolo determinativo “il, lo la, i, gli , le” corrisponde a “u, a, i, l”. A tavula: la tavola; a tuvaglia: la tovaglia; il tavolo: u tavulu; u ziu: lo zio; i zij: gli zii; l' animali: gli animali; a jastima: la bestemmia; i jastimi: le bestemmie.
L'articolo indeterminativo “un, uno, una” corrisponde a “nu, na”. Nu curtijeddhru: un coltello; na catina: una catena.

Aggettivi dimostrativi.
“Questo, questa, questi, queste” corrispondono a “stu, sta, sti”. Stu libbru: questo libro; sta casa: questa casa; sti libbri: questi libri; sti casi: queste case.

Aggettivi  possessivi.
Possono non essere dissimili dall'italiano, e seguono sempre il sostantivo, oppure essere preceduti dalle preposizioni “da, du, di”. La mia casa:  a casa mmia, 'a casa da mia; la mia auto: a machina mia, a machina da mia; il mio asino: 'u ciucciu miu, 'u ciucciu du miu; la mia terra: a terra mia, a terra da mia; i miei terreni: i terri mij, i terri di mij.
Se riferiti a familiari o parenti diventano suffissi “ma, ta, mi, ti”. Mio padre: patrima; tuo padre: patrita (parti); mia sorella: suorma; tua sorella: suorta; tuo cugino: cuginiti; mio cugino: cuginimi; mia figlia: figlima; tua figlia: figlita.

Le mutanti.
Parole che iniziano con la lettera “b” possono cambiare in “v”, e viceversa, oppure anche in “m” (ma non sempre). Volere: buliri; bacile: vacili; bastare: vastari; vacante: macante; bocca: vucca, mmucca; bacio: vasu.

Dittonghi.
Le vocali dei dittonghi sono quasi sempre disgiunte, con maggiore accentuazione della prima vocale. Fùocu: fuoco; sùocru: suocero; gùalu: uguale; currìa: cintura.

I ripetenti.
Soprattutto nell'indicare uno spostamento di moto, si usa ripetere lo stesso vocabolo. A rasa rasa: lentamente dalla stessa parte del cammino, costeggiando la strada; u muru muru: lungo il muro, fino in fondo; sti casi casi: vagabondare tra le abitazioni; sti terri terri: andare in giro per la campagna; u jumu jumu: lungo il corso del fiume; Tarsiani stu munnu munnu: emigrati per il mondo. Si usa ripetere anche per dare maggiore forza al termine, senza ricorrere al superlativo: “bijeddhru, bijeddhru; chianu, chianu etc.”.

La “sc” va in scena (o diventa scema?).
“Sca, sche, schi, sco, scu” sono pronunciate con un suono particolare, come in scena, scendere, sia ad inizio di parola che nel mezzo.

Prostesi.
Molti vocaboli hanno la “gh”, che precede la vocale iniziale. Ghida: Ida; Ghemma: Emma; Gangiulu: Angelo: guocchi: occhi: ghijeri: ieri; Gummulu: Umile: gavutu: alto; ghisciutu: uscito; gova: uova (solo al plurale).

Vocali al posto di consonanti.
Soprattutto la “J” , che può essere intesa come vocale “I”, viene usata al posto di “g” o di “f”  (ma non sempre). Jumu: fiume; juornu: giorno; juocu: gioco; jilata: gelata.

Apocope.
Quando si chiama una persona, si tende ad eliminare la sillaba che segue alla vocale che ha l'accento; se si chiama di seguito, di solito la seconda vocativa è intera. Riccà: Riccardo; Nicò: Nicola; mà: mamma; duttù: dottore; Frà: Franco; Riccà, Riccardu (ripetizione).

Di alcune consonanti.
Lo sviluppo di “ll” assume un suono caratteristico, trasformandosi in “dhr”. Palla: paddhra; castello: castijeddhru; cancello: cancijeddhru; bello: bijeddhru; stalla: staddhra. La sillaba “pi”, in inizio parola si trasforma in “chi”. Pianto: chiantu; pianta: chianta; piovere: chiovi; pioppo: chiuppu; piazza: chiazza. Però in fine parola può non essere così: “doppio, duppiu; coppia: cucchia”.

Epitesi.
Nelle parole tronche o nelle terze persone di qualche verbo, è possibile l'aggiunta di una sillaba. Sini: si; noni: no; picchini: perché; ccàni: qua; tùni: tu; facissidi: facesse; gheradi: era; vulijadi: voleva.

I diminutivi dei Normanni.
Il suffisso “one” in italiano ha valore accrescitivo; in alcune parole di Tarsia  si usa “unu” con un valore diminutivo.
Gaddhrunu: piccola valle, stretta fra le colline. Dal latino “vallis”, valle.
Timpunu: piccola balza, collinetta. Dall'osco “timpa”, luogo scosceso.
Chiantunu: piccola piantina alla base della grande pianta, “chianta”.
Scalunu: scalino, piccola parte di una scala.
Fuddhrunu: piccolo giaciglio per animali, diminutivo di “fuddhra”.
Pranzu, pranzunu: grosso ramo di albero, parte di un albero.
In francese, per indicare il diminutivo si usa “petit”, oppure il suffisso “ette”; però, in alcune parole si usa “on”, di  probabile derivazione normanna (almeno così credo, perché l'uso di “petit” e di “ette” è posteriore al 1300), anche se l'etimologia della parola non è normanna.
Gatto: chat; gattino: chaton.
Caban: capanna; cabanon: capannuccia, piccolo capanno.
Nappe: tovaglia; napperon: tovagliolo.
Chaupeau: cappello; chaperon: piccolo cappello, cappuccetto.
Fourche: forca, tridente, forcone; fourchon: dente di forca.
Plant: albero, o pianta.; planson: pollone, getto nuovo di un albero.
Apro una piccola parentesi su “furcina” (forchetta), diminutivo di “furca”. I Romani non usavano la forchetta, il cui uso è invalso dal XIV° secolo, importato dalla Francia, per cui l'etimologia prossima sarebbe il francese “fourchette”, diminutivo dal latino “furca”. Il suo utilizzo, con la conseguente diffusione del termine, è stato  a lungo osteggiato dalla Chiesa, che la riteneva oggetto demoniaco, perché induceva ai peccati della gola. Prima sulla tavola dei nobili e dei cortigiani, soltanto verso la fine del 1600 è diventato oggetto comune, quindi il vocabolo tarsiano data a non più di 4 secoli fa.

Il femminile plurale.
Nel dialetto tarsiano, non so se anche in altri dialetti calabresi, il genere femminile manca di plurale. Meglio, si esprime con il plurale maschile: ad esempio, "a fimmina" (la donna), "i fimmini" (le donne); "a pijcura" (la pecora), "i pijcuri" (le pecore); "a gaddhrina" (la gallina), "i gaddhrini" (le galline); "a vacca" , "i vacchi"; "a petra" (la pietra), "i petri" (le pietre). La "a" equivale all'articolo determinativo femminile singolare "la"; "i" sta per l'identico articolo determinativo maschile plurale "i".

Dei verbi.
Parlare dei verbi significa addentrarsi in un ginepraio: andiamo per gradi.
-Potere, volere, dovere.
-Potere e volere di solito sono separati, ma nelle frasi di augurio, buono o cattivo che sia, c'è commistione di potere e volere: “ca vò jittà sanghi”, letteralmente è “ che tu voglia gettare sangue”, in pratica “che tu possa gettare sangue”; “cà ti vò bbinì nà malanova”, letteralmente è “che voglia coglierti una cattiva notizia”, in pratica “ che possa coglierti una cattiva notizia”; “cà vò ìj'nParavise”, letteralmente è “che tu voglia andare in Paradiso”, in pratica “che tu possa andare in Paradiso”.

Il verbo dovere ( è il verbo che mi piace di più).
E' un caso a se stante. Presente solo come participio passato “duvutu”, che può essere sostituito da “avutu”, negli altri tempi e modi è sostituito dall'ausiliario “avere”, oppure ha una sua costruzione particolare.

Presente indicativo:
Devo: àja              
                                 Devi: àra
                                 Deve: àdda
                                 Dobbiamo: àma
                                 Dovete: àta
                                 Devono: àna

Imperfetto indicativo:
Dovevo: avìjedda
                                   Dovevi: avìjssi
                                   Doveva: avìjedda
                                   Dovevamo: avìjmi
                                   Dovevate: avìjti
                                   Dovevano: avìjni

Passato prossimo:
Ho dovuto (sono dovuto): àj'avùtu
                              Hai dovuto (sei dovuto): à'vùtu
                              Ha dovuto (è dovuto): add'avùtu
                              Abbiamo dovuto (siamo dovuti): am'avùtu
                              Avete dovuto (siete dovuti): at'avùtu
                              Hanno dovuto (sono dovuti): an'avùtu.

Non si usa  mai il passato remoto indicativo, ed anche del trapassato remoto si hanno poche tracce.

Imperfetto congiuntivo:
Che io dovessi: avìssida
                                      che tu dovessi: avìjssi
                                      che egli dovesse: avìssida
                                      che noi dovessimo: avìssima
                                      che voi doveste: avìssita
                                      che essi dovessero: avìssina.

Piuccheperfetto congiuntivo:
Che io avessi dovuto: avìssid'avùtu
                                               che tu avessi dovuto: avìjss'avùtu
                                               che egli avesse dovuto: avìssid'avùtu
                                               che noi avessimo dovuto: avìssim'avùtu
                                               che voi aveste dovuto: avìssit'avùtu
                                               che essi avessero dovuto: avìsser'avùtu.

Presente condizionale:
dovrei: avéra
                                    dovresti: avérisa
                                    dovrebbe: avérida
                                    dovremmo: avérima
                                    dovreste: avérita
                                    dovrebbero: avérani.

Passato prossimo condizionale:
avrei dovuto: avérid'avutu
                                                  avresti dovuto: avéris'avutu
                                                  avrebbe dovuto: avérid'avutu
                                                  avremmo dovuto: avérim'avutu
                                                  avreste dovuto: avérit'avutu
                                                  avrebbero dovuto: avéran'avutu.

-Giacché stiamo parlando di congiuntivi e condizionali, in definitiva di periodi ipotetici, c'è da notare come si esprime un tarsiano. Faccio un esempio, prendendo una frase: “se lo avessi, te lo darei”; abbiamo un congiuntivo ed un condizionale. In tarsiano, si può costruire in  tre modi: “s'avìa, tu dunavu”, “s'avera, tu dunera”( oppure “tu dera”,  piano piano, sta andando in disuso) , oppure “s'avissi, tu dunissi”, (ci può anche essere una commistione di tempi e modi, ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano). Certamente c'è una derivazione dal latino, però...non è così semplice (a questo proposito, devo confessare che ho le idee un po' annebbiate).
Nel primo caso,”s'avìa, tu dunavu” corrisponde al latino “si habebam, tibi donabam”, cioè due imperfetti,  ed esprime un dato obiettivo, sicuro, realizzabile, con una costruzione esatta dal greco antico; “s'avera, tu dunera” (“tu dera”) deriva dal latino “si habueram, tibi donaveram” (oppure “dederam”), che sono due piuccheperfetti indicativi, ed esprime un significato di condizione di possibilità, che potrebbe verificarsi, con costruzione da un latino classico; nel terzo caso, “s'avissi, tu dunissi” deriva sempre dal latino, però dal piuccheperfetto congiuntivo “si habuissem, tibi donavissem”, ed esprime, in origine, una condizione contraria alla realtà, ineffettuabile, con costruzione da un tardo latino, forse medievale (da notare che la derivazione è del piuccheperfetto, mentre la traduzione è dell'imperfetto). Senza addentrarci in cose che ci porterebbero fuori dal seminato, sembra una questione di lana caprina, ma ci introduce in una ricerca antropologica e culturale interessante:  a Tarsia, abbiamo dei modi di dire riferibili a più di duemila anni fa, e lo stesso modo di dire, ma con costruzione diversa, può essere anche riferito a circa mille anni fa, assumendo ognuno una sua sfumatura.  E' un  piccolo motivo di orgoglio, da tarsiano, il potere utilizzare frasi che, in altre parti della Calabria, sono codificate ed appiattite secondo una origine ed una regola prestabilite, ma senza alcuna gradazione di significato (valla a capire tu, la storia della lingua).

Ancora sul congiuntivo.
Sta andando in disuso in italiano, figuriamoci a Tarsia, dove è poco usato, tranne che in alcune frasi di augurio o di desiderio (arrassusìa, 'unsìammai, cà bbòglia Ddìju etc). Di solito, è sostituito dal corrispettivo indicativo o anche dal condizionale, ma la cosa non è assoluta: “ho paura che tu cada dalla scala: mi spagni che tu cadi da scala”; “se io avessi fatto questo: s'avera fatt chiss”; “se succedesse a me una cosa di queste: si mi succideridi (si mi succidijadi) ' a mmia nà cosa i chiss”; se, in futuro, farò qualche errore nel trascrivere queste cose (come è possibile che accada, non ho il monopolio della verità), potrò sempre dire: “pensavo che non vi accorgeste dello sbaglio: ghia pinsava ca 'un vin'accurgijti du sbagliu”.

Il futuro.
Manca, ed ogni proposizione riguardante il tempo futuro viene espressa al presente, con il verbo che si fa di solito precedere da un avverbio di tempo (per esempio: dumani vai a Spizzani). Potrei interpretare questa anomalia in senso vagamente filosofico, come una continua riduzione del futuro al presente, hic et nunc, con la certezza del solo presente che si appropria del tempo: quello che conta è adesso, ora. Sono considerazioni filosofiche che ricordano un filosofo tedesco, Martin Heidegger.

L'infinito senza un re.
L'infinito presente termina sempre in “a”, “e”, “i”, perdendo la desinenza “re”: nella prima coniugazione la “a” finale è di solito accentata, nella seconda la finale può finire in “i”, invece che in “e”. “Mi devo lavare le mani: maj'a lavà i mani”; “devo andare a cucinare: àja ìj a cucinà”; “vò abbuscà?: le vuoi prendere?”; “adesso devi scendere: mò ara scinni”; “ti devo rendere il favore: t'àjia renni u piaciri”; “la devi finire: àra finisci”.

L'avere.
Su calco napoletano, l'ausiliario avere si presenta in due modi: “avìri” o “téni”. “Ho dormito: àjiu durmutu”; “ho premura: tìjgni pressa”. In alcune situazioni si può avere una costruzione diversa. “Ho fame: àij fami, tìjgni fami, mi fà fami; ho sete: àij sidda, tìjgni sidda, mi fà sidda.

Verbi di moto.
In italiano sono costruiti, nei tempi passati, sempre con il verbo essere; in tarsiano è indifferente usare essere oppure avere. “Sono andato: àj jiùtu, sugnu jiùtu; sono uscito: àj ghisciùtu, sugnu ghisciùtu; sono venuto: àj vinùtu, sugnu vinùtu”. Io credo che l'uso del verbo “essere” sia stato incrementato con la scolarizzazione di massa, a partire dagli anni '50, e che, prima, si adoperasse solo il verbo “avere” (è solo un'ipotesi, purtroppo non verificabile).

Ancora su “vassulàcchja”.
Ho sostenuto, in precedenza, che la dizione esatta è “vattuwàcchja”. Devo fare una piccola correzione. Mia madre diceva “vassulàcchja”, mentre sua madre, mia nonna “du vasciu, gna Francisca 'i Licchétta” (deceduta nel '58), così come le sue sorelle “zì Catrina e zì Marì Giuseppa” (la nonna di Orazio Polino) usava ambedue le forme. Ho preferito utilizzare il modo di dire meno recente, anche se credo che siano esatte tutt'e due: mentre una è riferita in modo diretto, nella seconda persona singolare (vattuwàcchja: vallo a sapere tu), l'altra sarebbe una forma indiretta, nella terza persona singolare (vassulàcchja: chi lo sa?). Un ulteriore significato del termine, più recondito, è anche: non importa, lasciamo perdere, soprassediamo. Forse i nostri nonni (o bisnonni) utilizzavano le parole del dialetto in maniera più sofisticata e ricercata di quanto noi possiamo immaginare ( a dispetto, oppure anche in virtù, del loro analfabetismo).


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