lettera d - Tarsia dialetto

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D

In posizione intervocalica assume un suono fricativo.

Damprìma: dal principio, daccapo. Dal latino “de in primis”.

Danànti: innanzi, davanti. Dal altino “de in ante”.

Dappéde: da capo, di nuovo. Dal latino “de pede”.

Darriìjti: di dietro. Dal latino “ad retrum”, anche in francese antico “arriere”.

Dastra (adastra): termine in disuso. Era una capretta giovane, che non ha ancora partorito. Dal latino “haedus” (capretto), con l'aggiunta del suffisso “astra”, che ricorre in designazioni di animali (per esempio, pollastro da pollo).

Ddhrùocu: in un luogo imprecisato, lì. Dal latino “ad hoc”, oppure “ad locum”. “Statti ddhruocu”, sta lì e non ti muovere.

Dende: dente. Dal latino “dens”.  “U Patiternu duna pani a chini 'un tena dendi”: il Signore da il pane a chi non ha denti: la fortuna capita in ritardo, a chi non ne può più usufruire.

Dibbusciàtu: sregolato, dissoluto, libertino. Dal francese “debaucher”. L'appellativo viene rivolto di solito a chi si mostra svogliato, pigro, indolente.

Dìciri: dire. Dal latino “dicere”. “Dicimi a chini sì figli e ti dici 'a chini assumiglia” (dimmi a chi sei figlio e ti dirò a chi assomiglia: dimmi a quale parentela appartieni e ti dirò di loro vizi e virtù).

Dìddhru, dìddhra: egli, quello. Dal latino “ille, illa”.

Dìjcinnilibbri: Dio ce ne liberi, che non sia mai.

Dijunu: digiuno, anche fame. Dal latino "jejunius". "U sazziu un crid'aru dijunu" (il sazio non crede a chi non ha mangiato).

Dìlicu: delicato, tenero anche mingherlino, magrolino. Dal latino “delicatus”, derivato da “deliciae”; “puella delicatior haedo”, fanciulla più magra di un capretto (Valerio Catullo, I° sec. a. C.).

Dinaru: denaro, termine per indicare la moneta in generale. Dal latino “deni”: in origine era una moneta d'argento romana che corrispondeva a dieci assi. “Sanza dinari 'unn sinni candini missi”: ogni cosa, anche la più sacra, ha un suo prezzo.

Dirlògiu: orologio. Dal latino “horologhium” a sua volta dal greco “orologhion”, composto da “òron loghein” (leggere, calcolare, segnare il tempo). In Grecia, esistevano orologi ad acqua già nel III° sec. a. C., dotati di un sistema meccanico in cui era indicata soltanto l'ora. Un esempio di questi orologi, però del 1873, è al Pincio a Roma. (Detto fra noi, ogni volta che vado a vederlo, segna sempre la stessa ora).

Dirrupàre: precipitare dall'alto, cadere nel dirupo. Dal latino “disrupare”.

Discìpulu: discepolo, garzone di bottega, apprendista, che imparava un mestiere “ara putiga du mastu”. Dal latino “discipulus”.

Disluggiari: sgomberare. Dal francese “déloger”.

Dissapìtu: che non ha sapore, in genere manca di sale, oppure come di cosa che non procura diletto o soddisfazione.  Da un tardo latino “in sapidus”, derivato da “sàpere” (più propriamente, giudicare dal sapore).

Dissarmàre: disarmare, togliere i sostegni. Dal latino “de ex armare”.

Disterza: termine in disuso. Il giorno prima di avantieri. Dal latino “dies tertia”.

Dittàtu: modo di dire, motto, proverbio, massima popolare. Dal latino “dictare” (dire ripetendo), frequentativo di “dicere”.

Dittu: detto. Dal verbo “dicere”. “Dittu ppì dittu”, per sentito dire.

Divacàre: svuotare. Dal latino “de vacuare”; “stu pinsijru mi divacad'a capa”, questa preoccupazione mi svuota la testa.

Divricàre (duvricàre): seppellire, coprire. Dal latino “de coopricare”, tardo termine da “cooperire”.

Divisari: guardare. Dal latino “dividere” attraverso il participio passato “divisus”.

Dògli: caratteristico dolore, in rapporto con le contrazioni uterine, che precedono ed accompagnano il parto. Da un tardo latino “dolia”, derivato di “dolere”.

Domitu: mansueto, addomesticato, assoggettato, anche innestato. Dal latino “domare”, con participio passato “domitus”.

Dòn: titolo di rispetto che si dava alle persone di riguardo (ancora oggi ai preti). Dal latino “dominus”.

Dòppo: dopo. Dal latino “de post”.

Doppudumàni: dopodomani. Dal latino “de post de mane”.

Dòta: dote, l'insieme dei beni che la donna porta allo sposo, per sostenere i carichi economici della futura famiglia. Dal latino “dos”, affine al verbo “dare”; “conferre in dotem”, dare in dote (Plinio il Giovane, I° sec. d. C.).

Duabbòtti: fucile da caccia.

Ducatu: moneta d'argento o d'oro, di cui non si sa  con esattezza il primo conio. Nel Meridione sembra da attribuire a Ruggiero II di Sicilia, duca di Puglia, che la fece coniare intorno al 1100, con l'immagine del Cristo e con la scritta “sit tibi, Criste, datus quem tu regis, iste ducatus”. E' termine che si riferisce, comunque, ai soldi in generale. “Mijgli cijnti ducati aru diavulu, cà nò nù sordu aru prigatorio” (quando si nega un prestito a qualcuno e si preferisce perderli). “Vala cchiù n'amicu veru ca cijnti ducati” (vale di più un vero amico che cento ducati).

Dùciu: dolce. Dal latino “dulcis”.

Dulàre: lavorare con l'ascia, sgrossare, spianare un legno. Dal latino “dolare”; “robur dolare”, sgrossare, dandogli forma, un pezzo di quercia (Marco Tullio Cicerone, I° sec. A.C.).

Dùminiddiu: signore Iddio, esclamazione di sorpresa. “Dominus Deus”.

Dunàre: dare. Dal latino “donare”; “a chini duna a chini pruminda”, a chi da e a chi promette, riferito a persona litigiosa, attaccabriga. “Gisù Cristu duna pani a china 'un tena ddenti”: la Provvidenza premia chi non può usufruire dei suoi doni.

Dùnca: dunque. Dal latino “dum” e “tunc”.

Dùppiu: doppio. Dal latino “duo plus”.

Dùrci: dolci. Dal latino “dulcia” (le cose dolci).

Duvìri: dovere. E' un uso sostantivato del verbo “debère”, per indicare  l'impegno, l'obbligo morale di fare determinate cose.

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