lettera b - Tarsia dialetto

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B

La “b” in posizione iniziale si trasforma di solito in “v” (fenomeno del betacismo), come per esempio “varca, barca, vrazzu, braccio, vucca, bocca. E' una distinzione, comunque, non assoluta.

Babbajànni: barbagianni. E' termine tardo, forse importato dalle comunità valdesi. Deriverebbe da “barba”, traslato infantile per uomo anziano, in uso in Piemonte, e “Gianni” (zio Gianni). Altra ipotesi etimologica farebbe derivare il termine dal latino “barba” e “gena” (guancia). Sta anche ad indicare uomo sciocco, indolente, poco amante della compagnia.

Babbaléju: sciocco, semplicione, credulone. Da un latino volgare “babbaleus”, per radice onomatopeica “bab”. Marco Tullio Cicerone (I° sec. a. C.) nelle sue Filippiche dette il soprannome “Bambalione”, sciocco credulone, ad un cero Fulvio, suocero di Marco Antonio.

Babbijàre: scherzare, beffare, burlare, deridere. Dal greco “babazo” (Esichio Milesio, V sec.a. C.).

Babbilònia: caos, disordine, tumulto, confusione. Dal nome della città di Babilonia, che nella tradizione cristiana indica luogo di perdizione.

Babbuliàre: balbettare. Dal greco “bambaino”.

Baccagliàre: fare delle proteste, vociare, discutere ad alta voce, altercare. Probabile voce onomatopeica, familiare o gergale, ovvero dall'arabo “mbakhala” (parlare in modo confuso).

Baccalà: baccalà; persona stupida, goffa, malaccorta. Nel primo significato, deriva dallo spagnolo “bacalao”, a sua volta dal fiammingo “bakkeliauw”, metatesi dell'olandese “kabeljauw”; nel secondo caso, da un latino medioevale “baccalaris” o “baccalarius” (oggi si direbbe baccelliere). Il baccalarius era lo studente che aveva conseguito il primo grado accademico, inferiore a quello di maestro o dottore; spesso, nel volere imitare il maestro, si comportava in modo goffo, presuntuoso o da sapientone, da qui il significato. In questo senso è usato per scherzo.

Bacchétta: stecca di legno, verga, bastone. Dal latino “baculum”; le punizioni corporali, a scuola, consistevano in tante bacchettate sulle mani tese, a discrezione del maestro.

Bacùccu: vecchio decrepito e rimbecillito dall'età. Di etimologia incerta, soprattutto perché non è dato sapere come tale voce sia arrivata nel Meridione. L'unica ipotesi plausibile è il riferimento, non al profeta Habacuc, ma alla statua che lo raffigura, scultura del Donatello, situata nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze, e dapprima destinata al campanile di Giotto della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, opera popolarmente chiamata “lo zuccone”: il profeta è raffigurato come un uomo anziano, calvo e dal cranio allungato, gli occhi infossati, in atteggiamento ascetico e con lo sguardo assente.

Baddhratùru: ballatoio, pianerottolo che dà accesso a più stanze o appartamenti posti sullo stesso piano. Deriva dal tardo latino “bellatorium”, balcone da combattimento, a sua volta derivato da “vallare” (difendere, proteggere, cingere, fortificare).

Baggiànu: sciocco, semplicione, anche vanitoso. Da probabile derivazione di “bajana” (fava di Baia, località vicina a Napoli), così come si prende a prestito il nome di un ortaggio (per esempio: “citrulu”, per dire di un uomo stupido), per scherzare sulle qualità intellettuali di una persona. Altra etimologia plausibile sarebbe la derivazione da un latino medievale “batare”, osservare stando a bocca aperta, da cui il francese provenzale “badaud”, sciocco, babbeo.

Bagnaròla: tinozza. Quelle di una volta erano di alluminio, e servivano anche per fare il bagno ai bambini. Dal latino “balneum”, contratto dal greco   “balaneion”.

Bagùddhru: baule, cassa di legno o altro con coperchio convesso. Si usava perlopiù nei viaggi. Dallo spagnolo “baul”, o dal francese “bahut” (forziere, cofano, cassa), probabilmente dal latino “bajulare”, portare appresso (Fedro, I° sec. d. C.).

Baguddhru.

Bajàssa: donna volgare e di facili costumi. Da un antico francese “bagassa”, a sua volta dall'arabo “baassa”, serva, domestica, anche donna volgare. Un poeta napoletano del 1600, Cesare Cortese, ne fece le protagoniste di un suo poema, “Le vajasseidi”.

Banchera, vanchera: voce in disuso. Pettegola, ruffiana; più propriamente era la venditrice al minuto che sedeva su un banco e vendeva le sue cose su una pubblica via: essendo in contatto con più persone, veniva a conoscenza di notizie che poi propalava a piacimento, ricamandoci sopra. Dal gotico “bank”, sedile di legno, con il suffisso di pertinenza “era”. Di solito, erano forestiere (io ne ricordo due, negli anni Cinquanta, che venivano dalle parti di Paola).

Bàncu: tavola o banco. Dal germanico “bank”.

Bànna: parte, lato. Da un antico francese provenzale “banda”; “i ch'ira banna”, dall'altra parte del fiume; “sti banni banni”, dappertutto nel mondo.

Bannìsta, jettabànnu: banditore che, con il suono di una trombetta, informava che erano arrivati i pesci, o per avvisare di una comunicazione del sindaco o propagandare un evento che si verificava in paese. A Tarsia, che io ricordi, i banditori erano: Gherculuzzu 'i fraccola,  Totonno i Pinciporti, Ciddhruzzu e, in ultimo, Ciampano. Derivato da un germanico “bandwò”, oppure da un tardo latino “bannum”. Era un'usanza che si è protratta fino a circa gli anni '60: suonavano una trombetta per richiamare l'attenzione della gente prima di  informare dell'evento; a volte perdevano anche il filo del discorso (dipendeva questo anche da quanto vino avevano in corpo), oppure lo infarcivano con frasi irridenti e pittoresche, tenendo veri e propri comizi. E' ancora vivo il bando di Gherculuzzu: “à ditt'u sinnacu cà 'un si po' ìj a piscià arrijut' u muru da cabina, picchì piscia piscia u muru s'inpracidiscia”, invito del sindaco di allora, don Alfonso Toscano, ad evitare bisogni corporali dietro il muro della cabina dell'Enel.

Bànnu: avviso, annunzio pubblico gridato da un banditore. Stessa etimologia; “jittar'u bannu”, propalare una notizia, essere indiscreto. Il bando non era prerogativa solo dei cosiddetti “banditori ufficiali”, c'era anche chi lo faceva in proprio, girando per il paese e gridando a più non posso: “u grastapurceddhra”, il norcino; “u zinzularu” o “strazzaru”, lo straccivendolo che faceva di solito baratto con della chincaglieria; “u'mbrillaru”, che aggiustava e vendeva ombrelli; “u capiddraru”, che barattava ciocche di capelli, che sarebbero poi servite a fare parrucche; “u quadararu”, che aggiustava in loco pentole e padelle; “u tilaiuulu”, che vendeva stoffe e merletti; “l'ammulaforbici”, l'arrotino con il suo caratteristico trabiccolo; “u siggiàru”, che riparava le sedie impagliate; “u pisciajulu”, che dava a buon mercato il pesce che gli era rimasto nelle cassette; “u pignataru”, che vendeva recipienti in terracotta.

Baraccàna: parola ormai in disuso. Vestito a modo di mantella, fatto con peli di capra, che indossavano i pecorai. Dall'arabo “barakan”.

Baraùnna: confusione di gente che va e viene, insieme di cose tenute in disordine. Dallo spagnolo “barahunda”, a sua volta dall'arabo “baraha” (schiamazzare). La “baraha” era una canzone popolare, a più voci, che si cantava in Spagna, da parte dei musulmani, per rendere ridicoli i giudei ed in loro spregio.

Barraquésta (anche barrequésta): per buona regola, in conclusione, a buona richiesta, per ogni buon fine. Voce ormai in disuso. Dal latino “ab arra quaesitum” (richiesto con arra). Arra  è il pegno, la cauzione, anche l'acconto. La curiosità è che anche in italiano si dice “caparra”, dal latino “capio” e “arra” (prendere l'arra).

Basciùr: lampada da comodino. Dal francese “abat jour”.

Bàscu: basco. Dallo spagnolo “vasco”.

Bascùglia, vascùglia: stadera, grossa bilancia. Dal francese “bascule”.

Bascuglia.

Basétte: basetta, parte dei capelli che si raccorda con la barba al davanti delle orecchie. Potrebbe derivare dal francese “basin” abbreviato da “bombacin” (simile a seta, cotone).

Basta cà: purché. Basta è voce impersonale del verbo latino “bastare”, derivato da “bene stare”, e “quia”.

Bastinàca, pastinàca: sorta di erba con radice a fittone, commestibile, simile alla carota. Dall'arabo “bistinaqa”. Per la forma della radice, sottinteso per indicare l'organo sessuale maschile.


Pastinaca.

Bavétta: bavaglino per neonati. Dal francese “bavette”.

Bazzica: uno dei giochi del biliardo. Dallo spagnolo “bàsiga” o dal francese “”bésigue” (gioco delle carte condizionato). Però su queste derivazioni non sono d'accordo, perché la letteratura spagnola o francese  riportano questi termini al 18° secolo,  mentre il vocabolo è attestato nel Sud Italia già dal 1500.

Bbuinu (vota du): sottopasso. Credo che fosse un passaggio, o un ricovero per gli animali, buoi soprattutto, che venivano portati al pascolo. Dal latino “bos” (bue) o “bovilis” (stalla di buoi).


 
Vota du bbuìnu (foto di Maria Grazia Grispino).

Béllu béllu: con grazia, con garbo. Da un tardo latino “bellus” (grazioso, carino).

Biàfa: biada. Da un latino tardo “blada”, avena che si dà ai cavalli.

Biduìnu: persona dall'aspetto rozzo e incolto, di maniere zotiche, o anche vestita in modo strano. Dall'arabo dialettale “bedewuin”.

Bifanìa: Epifania. “Chissa ghè 'a nott'i pasca e bbifana/ccù ttri rré passa nà dama/ nà dama passa e Cristu nascìa/vulìa sapì a furtuna mia”: era una strofetta che le ragazze da maritare recitavano la notte dell'Epifania.

Bìjeddhru bìjeddhru: fa con certo garbo. Stessa etimologia di “bellus”. “Chini bijeddhru vò apparì, cijndi peni adda patì”, le cose belle richiedono sofferenze.

Binidìca: espressione di contentezza e di augurio. Dal latino “bene dicere”.

Birbijari (bibbiari): termine in disuso. Balbettare, anche parlare sottovoce, mormorare. Credo ci possano essere varie etimologie: onomatopeica da “berb”, contratto da un tardo greco “berberizo”, o dal latino tardo “ex everbis” (letteralmente senza parola).

Biròcciu: carro a due ruote per il trasporto di persone o cose. Dallo spagnolo “bilocho”.

Bisinìs: termine di ritorno. Affari, dall'inglese “business”.

Bisuugnu: bisogno, necessità. Da un tardo latino “bisonium”, contaminato da un gotico “bi sunnia”. “U bisuugnu ti 'mparad'a via”, si fa di necessità virtù.

Bòccia: bottiglia, recipiente di vetro per contenere soprattutto il vino; anche unità di misura per liquidi. Da un tardo latino “bocia”.

Bommèspera: saluto che si usava nel tardo pomeriggio. Dal latino “bona” e dal greco “espéra”.

Bommici: baco da seta. Dal latino "bombyx".

Bommìnu-Bomminìjeddru: riferito a Gesù Bambino, anche nome di persona.

Bonànima: la felice memoria di . Dal latino “bona” e “anima”.

Bonsignùri: monsignore. Dal francese “mon” (mio) e “seigneur” (signore).

Bonuvinùtu: benvenuto. Dal latino “bono venuto”.

Bottarùlu: cerbottana, pezzo di canna o di sambuco che serve per sparare, a forza di fiato, piccole pallottole di carta inumidita con la saliva. Dal francese “ballotte” (piccola palla).


Bottarulu.


Brachétta, vrachetta: patta dei pantaloni. In origine, era un pezzo di stoffa, quadrato o rettangolare, sul davanti dei pantaloni. Da “brachae” (pantaloni larghi usati dai Medi, popolo orientale, poi importati presso i Romani; quindi l'etimologia della parola è senz'altro pre-latina). “Ghè l'urtimu buttunu dà vrachetta”, riferito a chi non ha nessuna importanza, che non vale niente.

Brachissìni: indumenti intimi femminili. Stessa etimologia.

Brachittaru, vrachittaru: donnaiolo, lussurioso. Dallo spagnolo "braguetero".

Brachittùni: calzoni a mezza gamba dei pastori. Stessa etimologia di “brachetta”.

Bràma, vràma: desiderio ardente, fame straordinaria. Stessa etimologia di “abbramare”.

Brigàntu: brigante, anche uomo amante della compagnia, festoso, socievole; nel linguaggio familiare, è usato come epiteto vezzeggiativo e scherzoso. Da un tardo latino “brichare” (rissa, contesa). Ha perso il significato originario di bandito.

Brilloccu: ciondolo con apertura a bivalve, con foto incorporata ( o un fiore, o una qualche memoria). Dal francese "breloque".

Brischia, vrischia: termine in disuso. Questo vocabolo l'ho sentito da mio nonno Riccardo: non ricordo bene se si riferiva alla cera, di cui sono composte le cellette dei favi, su cui le api depongono il miele, oppure allo stesso miele che cola dal favo. Deriva dal greco "blitsein" (cavare il miele dal favo).

Brocchi, vrocchi: termine in disuso. I cacciatori, o i contadini, si portavano appresso un contenitore in pelle, un otre, di circa un litro, pieno d'acqua. Era detto così il muso, o la protuberanza sporgente, da cui bere, tenuto chiuso da un laccio legato, per non far fuoriuscire il liquido. Forse deriva dal greco "brochòs" (laccio). o dal latino "broccus" (sporgente).

Buàtta: recipiente in lamiera per conservare gli alimenti. Dal francese “boite”(scatola, recipiente).

Buccacciu: boccaccio, vaso dall'ampia bocca. Dal latino “bucca”.

Buccàlu: boccale. Da un tardo latino “baucalis”, a sua volta dal greco “baùchalis”(papiri tolemaici).

Bùccolu:  ciocca di capelli riccioluti. Dal francese “boucle”, probabilmente dal latino “buccula”, capelli che fuoriescono dalla visiera dell'elmo. (Tito Livio I sec. a. C.).

Buffétta: tavolo, ma anche cristalliera. Dal francese “buffet”.

Buffittùni: schiaffo, cazzotto, pugno. Potrebbe derivare dallo spagnolo “bofeton” o anche dall'inglese “buffet” (colpito, scosso).

Bujacca: cemento liquido. Derivato dal francese, come incrocio tra "boue" (fango) e "bouillie" (poltiglia).

Bumméscia: termine ormai in disuso. Era la base, di solito in metallo, su cui si poneva la candela. Dal francese “bobeche”.

Bunàca: a detta di mio padre, che era sarto ed anche cacciatore, era la ladra, tasca posteriore della giacca dei cacciatori, foderata di pelle impermeabile, destinata a contenere la selvaggina uccisa. Potrebbe derivare dal latino “bis” (doppio) e dal greco “nache”, vello di pecora, rivoltato e quindi impermeabile (termine omerico, Odissea); oppure dallo spagnolo catalano “butsaca” (borsa di cuoio). In alternativa, potrebbe derivare dal latino “gaunacum”, una specie di pelliccia di capra o di pecora (Varrone, I sec. a.C.). Un'altra possibile derivazione potrebbe essere dal greco “chaunaches”, una sorta di abito con molte tasche, di foggia persiana o babilonese, usate per riporvi la selvaggina (Menandro, uno storico greco del VI sec. d. C.).

Buonicìjddhru: un po' buono. Dal latino, diminutivo di “bonus”.

Bùonu bùonu: usato come locuzione “aru buonu aru buonu”, pacificamente, senza ragione, anche in modo inaspettato, d'accordo. E' locuzione derivata dallo spagnolo “de bueno a bueno” (d'accordo).

Burdìjeddhru: bordello, chiasso, frastuono, rumore. Diminutivo da un antico francese “borde”.

Buscijàru: bugiardo, mentitore, menzognero. Da un tardo latino “baucìa”.

Bùssula: bussola, anche una stanza interna, una porta interna, oppure la cassetta usata nelle chiese per raccogliere l'elemosina. Dal latino “buxula”, scatola di legno di bosso. In origine era l'ingresso a uno o due battenti che negli interni delle chiese è destinato ad evitare il flusso di aria fredda. Solo  dal XII° secolo, introdotta dagli arabi, e perfezionata dall'amalfitano Flavio Gioia, significa la scatola contenente l'ago magnetico che indica il Nord.

Buttùne: bottone. Da un antico francese “bouton”. Il gioco consisteva nel soffiare su bottoni stesi per terra, cercando di farli capovolgere. Nell'espressione “l'ultimu buttunu da vrachetta” ha il significato di chi non conta niente, forse riferito al fatto che, per qualsiasi uso, non è necessario sbottonarlo.

 



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